Storia

Il collegamento tra il mondo latino-mediterraneo e quello germanico divenne importante con l’impero romano e proseguì per tutto il medioevo per ragioni economiche, religiose e politiche. In particolare tale direttrice viaria ebbe un ruolo preminente fino al 1266, quando gli Angioini, francesi, sconfissero Corradino, l’ultimo erede del grande Federico II di Svevia. Il rapporto privilegiato tra Germania e Italia che si sviluppava su queste viabilità conobbe allora una battuta d’arresto, che durò per diversi secoli, a favore dei collegamenti con la Francia.

Lungo l’asse nord-sud transitarono interi popoli: Galli, Celti ed Etruschi, i Romani e le orde dei barbari che misero fine all’Impero Romano. Fu al centro delle vicende dei comuni e delle signorie, il rinascimento che nacque in Toscana, le battaglie del risorgimento nella pianura Padana, le due guerre mondiali. Tra i personaggi storici ricordiamo San Francesco che da Assisi arrivò a Firenze passando nel Valdarno, e Martin Lutero lungo l’Adige; Matilde di Canossa, quasi la “madrina” della nostra VIA, di cui incontriamo tracce dal Valdarno al mantovano e a San Benedetto Po, ove chiese di essere sepolta nella abbazia fondata dal nonno. Vi passarono diversi Papi e Imperatori, oltre sessanta, tra cui Enrico IV umiliato a Canossa e il Barbarossa.

L’Imperiale ripropone molte antiche vie: Consolari Romane, strade rinascimentali e settecentesche; ma anche vie commerciali di terra e d’acqua (tra Modena, il Po e Mantova) e devozionali (San Bartolomeo). E infine l’Asburgica via Regia, ancora oggi tra le arterie più importanti dirette al centro-nord Europa, che fu voluta da Leopoldo di Lorena e Francesco d’Este per collegare Firenze a Vienna, capitale dell’Impero Asburgico a cui entrambe le casate erano legate per discendenza dinastica. Questa via fu la prima autostrada europea e fu percorsa dai tanti artisti per i loro Gran Tour che, dall’ottocento, crearono l’immagine dell’Italia come meta turistica e culturale.

A seguire le schede che illustrano brevemente i diversi segmenti che compongono la Via Imperiale.

Via Claudia Augusta – da Trento a Verona

Via Postumia – Verona Peschiera e Mantova

Vie d’acqua da Peschiera a Modena

Valicare l’Appennino – da Pavullo a Pistoia

Via Cassia – da Pistoia ad Arezzo

Via Claudia Augusta – da Trento a Verona

La Via Claudia Augusta fu costruita in onore di Ottaviano Augusto a partire dal 12 d.c. Aveva due bracci, che collegavano l’Adriatico e il Po. Noi ripercorriamo con la Via Romea Imperiale il braccio detto “Padano” nato come via militare (la sua variante Altinate, diretta al mare, aveva invece scopi prevalentemente commerciali). Importantissima durante l’impero, alla sua caduta cominciò a perdersi in decine di sentieri, mulattiere e strade cosparse di storia e leggende.

L’obiettivo della strada era la velocità, per unire nel più breve tempo possibile punti tra loro geograficamente e culturalmente lontanissimi: il porto di Altino sull’Adriatico (770 km circa) e quello di Ostiglia sul Po (641 km circa) con il confine settentrionale dell’impero, Donauwörth, sul Danubio, a nord di Augusta, transitando per la valle dell’Adige, la Val Venosta, parte della valle dell’Inn, il Fernerpass, la Lechtal e quindi le distese della pianura bavarese. Lì c’era il limes e iniziava il mondo dei “barbari” con gli spettri dei legionari massacrati per mano delle tribù germaniche nella battaglia della foresta di Teutoburgo (Bassa Sassonia, 9 d.C.).

La Via Claudia Augusta ripercorre la rotta nord-sud, che dalla caduta dell’impero romano a tutto l’alto medioevo ha visto transitare innumerevoli popolazioni, attirate dal sole e dal calore mediterraneo, vagheggiando una terra prolifica e fertile. Questa via fu ripercorsa in seguito da artisti, intellettuali e ambasciatori che, nei secoli, scendevano nei grand tour paesi italiani per entrare in contatto con l’ormai perduta ma sempre agognata classicità. Oggi percorrere la Via Claudia Augusta vuol dire dare un forte senso di unità, tra culture diverse, in piena sintonia con lo spirito romano del tempo. Infatti, per quel popolo che aveva colonizzato buona parte del mondo allora noto, conquistare le terre significava rimescolare gli uomini, facendo di Roma una terra di asilo di uomini, di dèi, di usi e costumi: la cultura romana si basava appunto non sulla chiusura ma sull’apertura al mondo, lezione mai imparata abbastanza dai paesi europei.

Costruire la Via Claudia Augusta, la strada della Rezia, non fu impresa facile. Soltanto dopo aver scavalcato il Fernpass (Tirolo) e le imponenti montagne alpine, la strada scivola dolcemente nella valle del fiume Lech, entrando poi nell’ondulata pianura bavarese (l’antica Svevia). La strada terminava in corrispondenza della città romana di Augusta. Da Augusta Vindelicum la Via venne prolungata successivamente di una quarantina di chilometri a nord, raggiungendo Donauwörth, l’antica Werd, affacciata sul Danubio: il fiume rappresentava il Werd, il confine, il limes.

La Via Claudia Augusta aveva anche una funzione ideologica e simbolica: nella formula a flumine Pado ad flumen Danuvium risiede l’idea di superamento della barriera alpina e di collegamento fra due mondi racchiusi tra il principale fiume d’Italia e il maggior fiume conosciuto dai Romani al di là delle Alpi, il Danubio.

Nella costruzione di questa e di tutte le loro strade, i Romani si preoccupavano di rispettare una regola ben precisa: la strada doveva essere veloce, sicura, solida, di facile manutenzione, con ottima visuale sul territorio e possibilità di difesa rapida. Una regola è la ricerca ossessiva della linea retta, che su terreno mosso significa indifferenza ai saliscendi. La logica del rettilineo ha senso strategico e commerciale, è fatta per sorvolare e attraversare in fretta, non per conoscere.

La Via Claudia Augusta ha la stessa logica delle ferrovie militari asburgiche costruite tra l’Ottocento e il Novecento in Tirolo: transitavano lontane dai centri abitati e seguivano una linea il più possibile retta. A costruire la Claudia Augusta furono i soldati della legione di Druso: metro dopo metro, inghiaiandola o battendo il fondo naturale, lavorando dalle 8 del 10 mattino alle 15 del pomeriggio. Soltanto nei pressi e negli attraversamenti dei centri abitati più importanti la strada veniva lastricata con pietroni rettangolari. Da questa arteria principale si diramava un’infinità di bretelle, chiamate vicinales, che collegavano tra loro i villaggi (vici) e le fattorie sparse (rusticae). Il perfetto funzionamento della strada militare era in carico allo stato, mentre per le varianti la cura spettava ai singoli, le municipia locali. A distanze fisse si innalzavano castella, piccoli fortilizi, e stationes o mansiones, punti di sosta e di ristoro, solitamente distanti una trentina di chilometri l’uno dall’altro. Le mansiones erano statali (o almeno le gestivano uomini delegati dallo Stato) e vi si potevano fermare soltanto gli appartenenti all’amministrazione romana. Gli altri dovevano accontentarsi delle mutationes, dove chiunque poteva fermarsi, cambiare i cavalli, i buoi o i muli, trovare di che riparare eventuali guasti, dormire e mangiare. Queste aree di sosta distavano tra le dodici e le diciotto miglia l’una dall’altra. I posti tappa romani sono gli antenati degli ospitali medioevali (e degli odierni motels sulle autostrade). Su quello che rimaneva della Via Claudia Augusta sorsero, a partire dal 1400, associazioni e compagnie che gestivano particolari forme di servizio e di assistenza per viaggiatori diretti in Italia. Tra queste associazioni va ricordata principalmente la Venediger Boten che, proprio da Augusta, organizzava, soprattutto per pellegrini diretti in Oriente, viaggi con destinazione Venezia.

L’unità di misura della strada romana era il milia passuum: mille passi equivalevano al miglio romano e il passuum corrispondente a 1,48 metri; quindi un miglio corrispondeva a 1480 metri. La Via si misurava partendo da Roma o, nel caso della Claudia Augusta, dai due porti di partenza, Altinum e Hostilia. Ad ogni miglio c’era un cippo di pietra su cui era incisa la distanza in miglia e, qualche volta, anche la dedica di chi aveva voluto, o riadattato, la strada. Delle migliaia di miliari collocati sulla Via Claudia Augusta ne sono arrivati noi a noi soltanto quattro.

Sulla strada si trovavano le famigerate locande, ricettacoli della vita, dove ci si poteva imbattere in una variegata società: mercanti sull’orlo della bancarotta, ladri, prostitute, battellieri, carradori, soldati di ventura. Non c’era molta differenza tra una locanda romana e una delle tante taverne così ben descritte dai viaggiatori medievali e riportate nella letteratura del tempo. Però, come ci ricorda il Aristofane le strade senza locande sono peggio di una vita senza vacanze.

Sulle strade romane si viaggiava lentamente: i carri commerciali non superavano le otto/dieci miglia al giorno. Cinquanta miglia era invece la media per i corrieri di stato, i quali cambiavano cavalli ad ogni posto tappa.

Via Postumia – da Verona a Peschiera e a Mantova

Questa Via è una importante consolare romana, che deve il proprio nome al suo costruttore, Postumio Albino. Come tutte le consolari era stata costruita per il rapido spostamento dei soldati, e infatti tagliava orizzontalmente la Gallia Cisalpina e collegava i più importanti presidi militari, da Torino fino ad Aquileia.

L’itinerario è giunto fino a noi grazie ad una fonte del IV secolo d. C. allorché un pellegrino negli anni 333-334 percorse l’Itinerarium Burdigalense, da Burdigala, ovvero l’odierna Bordeaux, a Gerusalemme percorrendo quindi la Postumia da ovest verso est. Seguendo le sue tracce, durante il medioevo, pellegrini e crociati arrivavano dalla Francia, percorrevano la Postumia fino ad Aquileia, scendevano nella penisola balcanica, raggiungevano Costantinopoli e si dirigevano a Gerusalemme. Divenne dunque un percorso molto battuto, anche e soprattutto in direzione est-ovest poiché era un tratto fondamentale dell’itinerario che conduceva dell’est Europa a Santiago di Compostela, che era diventata una meta religiosa importantissima. I pellegrini entravano sulla via ad Aquileia e, dopo averla percorsa tutta, proseguivano verso la Francia.

L’attuale itinerario della Postumia non si sovrappone perfettamente all’antica via consolare romana: se ne discosta per scegliere sentieri sicuri, comodi sterrati e paesaggi gradevolissimi. Il tracciato odierno unisce Aquileia a Genova, attraversando sei regioni dell’Italia settentrionale, Friuli-Venezia Giulia, Veneto, Lombardia, Emilia-Romagna, Piemonte per poi piegare verso la Liguria. Si varca l’Appennino nella provincia di Alessandria e si scende a Genova.

Questo percorso incontra la via Romea Imperiale in un tratto molto affascinante, da Verona a Mantova, con due itinerari tra suggestivi borghi fortificati, lambendo anche il lago di Garda. Postumie e Imperiale concorrono a creare una rete di cammini a disposizione del turismo lento, sulle orme dei tanti pellegrini che poi si salutavano proseguendo il proprio percorso, a sud verso Roma o a ovest verso Santiago di Compostela.

Vie d’acqua da Peschiera a Modena

La presenza dei corsi d’acqua ha sempre contraddistinto i territori che vi si affacciano, favorendo il transito delle merci e delle persone e rappresentando punti strategici dove fondare nuovi insediamenti abitativi per il controllo dei traffici e dei commerci.

Da Pavia sino al delta il corso del Po ha rappresentato per secoli, sino all’avvento della ferrovia, la principale via di comunicazione dell’Italia settentrionale.

Nell’Alto Medioevo i traffici fluviali erano gestiti in gran parte da enti ecclesiastici e monasteri benedettini, che usavano navi proprie e persone da loro dipendenti; con l’estendersi dei commerci si costituì una vera e propria classe di navaroli, organizzati in  associazioni.

La navigazione fluviale ha avuto un ruolo importantissimo fin dall’antichità; sui vecchi barconi da trasporto, ormai visibili solo nei modellini, si portavano ghiaia, sabbia, carbone, legna, crusca, bietole, frumento, zucchero. Sfruttando la corrente si dirigevano verso il mare, risalendola utilizzavano vele e remi, oppure il traino di cavalli e cavallanti, lungo le rive.

Il declino delle attività di navigazione iniziò con l’occupazione austriaca, poiché venne limitata a determinati confini e natanti; ciò nonostante ci fu l’introduzione, nella prima metà dell’800, della navigazione a vapore. Si trattò tuttavia di iniziative isolate, senza continuità, tanto da scomparire del tutto nella seconda metà del secolo con l’avvento della ferrovia. La ripresa della navigazione fluviale si concretizzata gli inizi del ‘900, mediante i rimorchiatori a vapore.

Lungo le rive dei fiumi padani era frequente vedere la sagoma dei mulini natanti, tipica espressione di questo particolare paesaggio, nonché fonte di energia e sopravvivenza per le popolazioni rivierasche.

Anche il paesaggio attorno al fiume era molto diverso da quello di oggi. Lungo le rive sabbiose correvano le piste dei cavalli e dei buoi che tiravano le chiatte, uno spazio da tenere sempre libero da qualsiasi impedimento che fosse radice, tronco d’albero o cespuglio. Oltre al camminamento degli animali cominciava il vero e proprio bosco fluviale,  che cresceva in maniera spontanea. Sulle rive la vegetazione arborea era varia e consistente: c’erano salici, gelsi, ontani, ciliegi,  robinie, querce, roveri, che periodicamente venivano abbattuti. Nel bosco c’era la possibilità di raccogliere i rami di giovani salici e acacie per farne vimini adatti a ceste e cestini. Il bosco offriva anche molta vegetazione arbustiva adatta all’intreccio per la produzione di piccoli oggetti domestici.

Tra i mestieri fluviali non si può non citare quello del pescatore, che richiedeva una grande conoscenza del fiume che, diversamente dal mare o dal lago, si modifica continuamente in larghezza e profondità. Il suo lavoro si svolgeva anche d’inverno e di notte (tranne che con la luna piena).

Il fiume è ancora fonte di ispirazione per artisti, poeti, scrittori e i suoi argini sono il punto ideale per osservare il territorio circostante caratterizzato da isole sabbiose, pioppeti, corti agricole e ancora pievi, cappelle e piccoli borghi. Un paesaggio che stupisce sempre i camminatori e i cicloturisti, in qualsiasi stagione.

Tratto dalla guida, ed. 2023, Via Romea Imperiale. Federica Guidetti Conservatrice Museo Civico Polironiano di San Benedetto Po (MN).

Valicare l’Appennino – da Pavullo a Pistoia

Chi scende dal Brennero e si dirige verso Roma, raggiunta la pianura padano-emiliana deve valicare l’Appennino. Questo fu il problema anche dei nostri avi, Etruschi e Romani.

A nord e a sud  dell’Appennino tosco-emiliano correvano due vie consolari romane, la via Emilia e la via Cassia: la prima, partendo dalla importante colonia di Rimini, attraversava tutta la pianura padana, e ne consentì la progressiva “romanizzazione”; la seconda partiva da Roma e attraversava l’Etruria. Allo scopo di collegare le due grandi arterie, nel I sec a.C. vennero tracciate strade (come la Mutina – Pistoria) spesso chiamate Cassiola o piccola Cassia.

Dopo la caduta dell’impero romano le strade per secoli rimasero percorsi incerti e malsicuri, mulattiere strette, impraticabili d’inverno e tortuose per evitare i frequenti torrenti.  La descrizione delle strade dell’Appennino modenese, tramandata da documenti dell’epoca, è molto significativa: “strette e aspre”, “giarose e cattive”, “pessime, straripate, scoscese”. “Via alpestre” la definisce Lodovico Ariosto, tanto accidentata da stancare il suo povero cavallo.

Una strada importante, tracciata forse già dai Romani, denominata ancora nel Cinquecento “Romea” o “Strada Ducale”, si dirigeva da Modena a Pistoia e, giunta nel pianoro di Pavullo, si diramava in diverse direzioni verso la Toscana. Accanto a quella più nota e frequentata che percorreva la Valle del Leo verso il passo della Calanca, vi era l’altrettanto importante rete viaria che si dirigeva verso la Toscana lungo la vallata dello Scoltenna, teatro di battaglie tra Romani e Celti, e più tardi tra Longobardi e Bizantini.

Una svolta importante nella viabilità fu segnata nel ‘700 dagli Estensi che vollero un collegamento tra Modena e il Tirreno, senza attraversare il territorio straniero di Lucca: i lavori vennero affidati al matematico Domenico Vandelli che nel 1739 ne completò il progetto. Progetto innovativo, che privilegiava l’alta quota e abbandonava quasi completamente i centri abitati. Le scelte del Vandelli dipesero dalla volontà di trovare un tracciato breve per arrivare a San Pellegrino, passo obbligato per valicare l’Appennino, essendo quello delle Radici in territorio lucchese. Dal 1760 la Via Vandelli cominciò a decadere, e oggi è ormai frequentata solo da escursionisti ai quali offre ampi panorami sull’Appennino Tosco-Emiliano.

Sul versante toscano, nel territorio pistoiese, fino alla seconda metà del Settecento, per scavalcare i monti fitti di abeti più a ovest c’era solo qualche sentiero impervio che si arrampicava al passo della Fariola o su per il Passo di Annibale a 1798 metri, toponimo che richiamerebbe il temerario condottiero cartaginese, il quale aveva già valicato le Alpi e si pensa abbia attraversato qui il crinale nel 217 a. C. per scendere in Etruria. Non lontano dal Passo di Annibale, tra il monte Maiori e il monte Gomito, c’era il passo di Serra Bassa. Tra boschi, radure e pietre, un viottolo collegava Rivoreta, nel versante toscano, con Fiumalbo nel modenese.

Nel 1781, per volontà del Granduca di Toscana, Leopoldo di Lorena, e del Duca di Modena, Francesco d’Este, entrambi appartenenti a casate di origine asburgica, fu aperta la strada Giardini-Ximenes dal nome dei due progettisti, un’opera d’arte per quei tempi, che rapidamente divenne molto più utilizzata rispetto alle precedenti strade. I lavori portarono all’apertura del valico dell’Abetone, dove gli uomini al lavoro trovarono sul percorso un maestoso abete.

Occorsero tre giorni di incessanti colpi di accetta per abbatterlo: da allora si iniziò a nominare il luogo non più Serra Bassa, ma Abetone. Presso il passo fu poi costruito il primo nucleo del futuro paese, spaccato in due fin dalla nascita dal confine di stato che lo attraversava, confine segnato da due piramidi, tutt’ora esistenti. A servizio della via furono poi costruite stazioni di posta, tra cui quella di Boscolungo dove fu collocata anche la nuova dogana toscana. Dotate di locande e scuderie per la sosta dei cavalli, le poste divennero ben presto centri attorno ai quali crebbero abitati, oggi belle cittadine “figlie della strada”. La strada poi fu fatta proseguire a nord fino al Brennero, e di qui a Vienna, la capitale dell’Impero Asburgico, tutta in amboti di territori “amici”. Ancora oggi quella viabilità (coi i nomi di SS 12 e  A22), è la più frequantata via di collegamento da-e-per l’Europa.

Tra i primi fruitori eccellenti di questa via fu Vittorio Alfieri che scrisse nella sua autobiografia: “Eccomi dunque da capo per viaggio. Per la solita mia direttissima e assai poetica strada di Pistoja a Modena, me ne vo rapidissimamente a Mantova, Trento, Inspruk…”. Era il 1784.

Via Cassia – da Pistoia ad Arezzo

Dopo che i Romani ebbero sottomesso le popolazioni etrusche dell’Etruria ed iniziarono la penetrazione verso nord, per combattere i Liguri e i Celti ebbero bisogno di contare su percorsi agevoli e rapidi per raggiungere con facilità le zone di guerra con l’esercito.

Cominciarono a costruire le strade consolari che avevano delle specifiche caratteristiche: dovevano essere possibilmente le più brevi, rettilinee, agevoli al passo e quindi venivano ricercate pianure e i passi più facili per superare i colli. La larghezza della sede doveva permettere lo scambio di due carri.

Intorno alla metà del II sec. a. C. si dette il via alla costruzione di una strada che permettesse un più agevole e veloce collegamento con le regioni poste a nord di Roma. Non per collegare Firenze, che non era ancora una colonia, ma per permettere all’esercito di raggiungere le zone di guerra, nonché per una evidente necessità di collegamento amministrativo dei nuovi territori occupati. Quale fu il tragitto prescelto? Fino ad Arezzo tutti sono convinti che la strada ricalcasse in gran parte il tracciato della precedente viabilità etrusca.
Dopo Arezzo pensiamo che la strada, costruita ex novo secondo le caratteristiche di una strada militare, abbia trovato terreno favorevole sulla riva sinistra dell’Arno, senza perciò attraversare il fiume. Non era dunque la strada che oggi viene chiamata “Setteponti” e che in età medievale veniva chiamata “Via Sancti Petri”, essendo quella una strada di “collegamento”; la consolare invece era una strada di “velocità”: i tracciati non potevano essere i medesimi. Oltre alla tortuosità e difficoltà del percorso antico, i torrenti che scendono dal Pratomagno sono ben più numerosi e maggiormente copiosi d’acqua di quelli presenti nel versante opposto.
Il tracciato che proponiamo, da Arezzo verso nord, partendo da porta San Lorentino, arriva a Ca’ Rossa con oltre sette chilometri di rettilineo, talmente funzionale che è arrivato fino a noi immutato. Chi può aver tracciato questo tipo di strada se non un console romano?

Nel 123 d.C. l’Imperatore Adriano ordinò di ricostruire la Cassia che, dopo oltre due secoli e mezzo dalla sua realizzazione, era in condizioni disastrose. Vicino al mille, quando si intensificarono i commerci e i contatti di ogni tipo tra Firenze ed Arezzo, la strada, chiamata “Via Vecchia Aretina”, divenne da allora il percorso principale per andare verso Roma. Molti furono i personaggi importanti che vi transitarono, come scrive P. Giovanni M. Montano nella sua opera Motivo Francescano in piazza san Gallo: nel 1211 vi transitò anche San Francesco che “presa la via del Valdarno, si era soffermato a Ganghereto, presso Terranova; sceso a Castel San Giovanni aveva sostato a Figline, e poi passando per l’Incisa, aveva attraversato le colline dell’Incontro ed era sceso nel Pian di Ripoli arrivando a Firenze di notte.” 

Montaigne tenne un famoso resoconto del suo viaggio magnificando, tra l’altro, l’ospitalità dell’Osteria di Levane.

Lorenzo Bigi